Un clima infuocato, la politica internazionale, i piani di salvataggio dell’euro, il patto sulla disciplina di bilancio, il “growth pact” voluto dal ministro francese Holland e ancora l’abilità del nostro presidente del consiglio M.Monti di inserire nelle concertazioni del consiglio europeo del 7 luglio anche uno scudo antispread. La politica internazionale si muove sotto l’urgenza di passi necessari, non per questo strutturali, passi per salvare un progetto politico europeo per ora percepito non come difesa delle persone e dell’ambiente e portavoce di un “mercato etico, o sociale” come alcuni lo definirebbero in modo però poco chiaro.
Evidentemente non voglio parlare sul nostro blog di politica europea, ci vorrebbero altri spazi e altri intendimenti, l’obiettivo è qui di mettere insieme alcune riflessioni estive che in un secondo momento potrei fare oggetto di una trattazione diversa, senza pretesa di esaustività, sicuramente più ampia. Il punto è qui sempre lo stesso, si parla di tensione dei mercati, di esigenze dettate dalla comunità internazionale, di globalizzazione, di diritti e di ambiente (il riferimento è qui alla conferenza sullo sviluppo ecosostenibile di Rio + 20 di cui di recente si è pubblicato un dossier di 49 pagine e 283 capitoli incentrato appunto sulla difesa della biodiversità), ma mai del nodo strutturale ovvero di capitalismo (lo si fa nell’ambito del pensiero ecosostenibile e del “mercato etico” ma non investendo realmente i veri poteri del mercato finanziario, sovranazionale e massimamente disincarnato, compito che dovrebbe attenere agli economisti più avvertiti, quelli insomma che pur non rinunciando ad agire in un clima di Realpolitik – politica reale – sull’esistente, vogliono comprenderlo senza paraocchi nè concordismi di facciata, del tipo; basta un pò correggere il tiro).
Ecco che mi trovo a parlare in modo certo molto diffuso del saggio di Giuseppe Laino pubblicato da EC Edizioni Clandestine nel 2009 e intitolato “Luoghi e modi del comune”. Si tratta di un saggio che con una grande ricchezza di riferimenti bibliografici, ci racconta debolezze del pensiero democratico-liberale e propone una sorta di fede indissolubile non nella solita mediazione tra esigenze del mercato da un lato e diritti dall’altro, bensì il superamento delle contraddizioni in vista di uno scenario nuovo, liberato; quello che l’autore definisce “liberazione dal e del lavoro”; un processo che sovverte le nostre abituali formazioni intellettuali in vista di un modo diverso e radicale di stare insieme. La radicalità non è qui da intendersi nell'”essere più o meno rosso o più o meno adattato al sistema di produzione capitalistica” ma nella fideistica convinzione che un mondo diverso è ancora possibile.
Altro elemento di riflessione; sicuramente chi scrive (non intendo solo me stesso ma l’autore del saggio in primis) tende ad inserirsi in una tradizione, quella di un pensiero critico di sinistra, radicale nel senso di “teso a ben altri fini ed orizzonti rispetto a quelli di una politica ordinaria.” Anche se delle differenze tra il mio pensiero e quello di Giuseppe Laino esistono, non è questo il punto, ciò che conta è la sostanza o quella sana inquietudine che ci prende quando le “cose intorno a noi, nella nostra cerchia ristretta” sembrano andare bene e tuttavia si dà voce, attraverso uno sguardo più attento, a quell’umanità reietta e vilipesa che popola le nostre città, quegli stranieri che mettono in crisi i nostri “sani valori cristiani” o che ci commuovono dentro perchè ci mettono in crisi; come dire, il mondo non è casa nostra, il nostro telecomando o le nostre piccole e rassicuranti certezze.
Di recente ho avuto modo di leggere un’arguta osservazione di una ragazzina su un giornale (di cui non riporto il nome perchè non importante ai fini di ciò che qui voglio dire) la quale dice: “se tra mille anni gli uomini del futuro dovessero guardarsi indietro penseranno; ma quali erano le loro preoccupazioni? Esodi di massa, disastri ambientali mentre in alcuni paesi progrediti come gli USA (la ragazzina è infatti americana) si va a votare perchè la paura è che i gay si possano sposare, o come da noi, semplicemente veder riconosciuti dei diritti” (ho rielaborato con le mie parole i pensieri della ragazzina). Attraverso l’economia e la filosofia marxista, si cerca in questo testo di fare il punto della situazione, si passa da una valutazione “etica” della democrazia, dei suoi limiti e del fatto che appunto spesso si dovrebbe parlare di dittatura delle maggioranze, per arrivare ad una domanda cruciale; qual’è il giusto tempo della rivoluzione? anche culturale? (di un modo di concepire la democrazia come democrazia realizzata e non democrazia del consenso) non quello del mercato ovviamente, è un tempo nostro, il nostro tempo che ci separa dall’alienazione, dalla perdita di noi stessi nel di fuori.
Dal saggio: “Ma è soprattutto il prolungamento della giornata lavorativa, questa invenzione dell’industria moderna, che accresce la massa del pluslavoro acquisito [..]” quel plusvalore per intenderci che il mercato incorpora nel capitale ed utilizza da un lato per accrescere sè stesso, dall’altro per ideare quella complessa macchina sociale che lo stato, concepito come il tutore dell’ordine dei mercati, mette in campo per attenuare tensioni sociali e in qualche modo rendere più etico il capitalismo (ammesso che ciò sia possibile). Lo stato è però in questa fase “globale” defraudato o superato dalla tirannia dei mercati, e con questa esautorazione del suo ruolo tradizionale, il capitalismo è diventato ancora più difficile da dominare o ammorbidire attraverso adeguate politiche sociali, non a caso ho iniziato parlando di Europa e globalizzazione. I problemi sono ora globali, sia in termini di capitali, sempre più volatili, che in termini di mescolamento di razze e culture sotto l’egida di un “melting pot” sempre più problematico che infine in termini di tutela ambientale; l’effetto serra con i conseguenti cambiamenti cliamtici o la perdita irreversibile di biodiversità, per non parlare dell’allarmante fenomeno della desertificazione. Tutto questo viene assai bene spiegato all’interno del saggio.
Partendo da queste osservazioni due domande rimangono aperte; non si tratta ovviamente di aderire ad un marxismo piuttosto che ad un altro (io stesso non mi ritengo veramente marxista anche se considero attuali molte delle intuizioni che troviamo in molti marxismi) ma di porci interrogativi ogni volta che vediamo sofferenze, che ci accorgiamo come la nostra ricchezza sia costruita letteralmente sulla povertà di molti e di come l’accettazione dello status quo porti con sè l’imprimatur di una “colpa metafisica” che ciascuno di noi porta con sè nei confronti degli antichi e dei nuovi poveri.
Naturalmente rapporti sociali di un certo tipo, una visione esclusivamente strumentale dell’altro non può prescindere da una “cosalizzazione” della natura che risponde sempre alla domanda: “cosa mi può fruttare la deforestazione o la rapina delle risorse naturali?”. Uomini o donne ridotti a “cose” nel senso di “enti utilizzabili” in vista di “fini pratici” ed esclusivamente “economicistici”; atteggiamento che si accompagna ad un radicale svuotamento delle normali “strutture” di significato ( strutture nel senso di culturalmente acquisite), quell’atteggiamento fenomenologico (sulla fenomenologia e sulla necessità di far parlare il mondo ho già avuto modo di soffermarmi più volte) che mi porta verso una relazione affettiva con l’altro e con il mondo in funzione di fini più alti del semplice sfruttamento di persone e ancora “cose”.
Per finire, si parla molto della simbologia cristiana della croce, del progetto divino della sofferenza, e anche tra chi crede (forse sono tra questi anche se ritengo la fede un atteggiamento piutttosto che un possesso) la domanda sorge spontanea; la croce non è forse simbolo di un trascendere sempre lo status quo, la speranza e la fede di un mondo diverso anche se tutto sembra procedere in una direzione contraria? Il saggio di Laino e la nostra battaglia sembrano nascere da un moto del cuore e da una ribellione interiore, dalla sofferenza che ci provoca il mondo di “qua” e che però vorremmo almeno in parte rinnovare o vedere rinnovato; e così la nostra splendida Via Gaggio! Un mondo di colori, di speranze senza ingenuità, che il vero miracolo possa ancora accadere e forse almeno nel nostro piccolo sta già accadendo…come sembrerebbe suggerire questo saggio con l’immagine della “piramide rovesciata”. Siamo noi a decidere, del nostro futuro e dei nostri territori, e non i vari potentati economici o interessi specifici e di parte associati più ad una logica speculativa che ad una politica di largo respiro.
Ultima osservazione; i veri attori del cambiamento siamo noi, questa la vera rivoluzione e la vera fede di Giuseppe Laino (e aggiungerei anche la mia); il vero senso di una politica pienamente partecipata, una politica che parta dal basso e che progetti utopisticamente un futuro diverso da quello attuale. Una democrazia che non ricerchi il consenso bensì la “verità”, una comunità che viva il suo territorio e il senso di un’appartenenza radicale, non ad etnie ma a “luoghi” autenticamente vissuti. Da qui la forza del cambiamento che nella metafora della parabola rovesciata condizioni i “vertici della politica cosiddetta alta” dal basso dai veri attori che siamo noi. Per questo rinnovo l’invito al Campogaggio tra pochi giorni, il territorio lo pensiamo noi, lo progettiamo noi, così anche le possibilità di uno sviluppo vero. In momenti di grave crisi le derive populiste sono sempre lì, in agguato, con le loro facili ricette “sviluppiste” che possono avere un effetto dirompente in chi è scoraggiato e ha bisogno di stabilità e sicurezza per il futuro.
Nicola Balice
membro del comitato pro Via Gaggio
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