OGGI NEL CALDO DI UNA GIORNATA QUASI ESTIVA

Ci siamo ritrovati alla ex dogana, alla fine di Via Gaggio, eravamo un gruppetto consistente di persone che volevano ritrovarsi per “vivere” una giornata come tante altre, una giornata qualunque….non voglio banalizzare, ma le bellezze della brughiera, eravamo esterrefatti, io personalmente non le conoscevo se non dai libri. E al termine della passeggiata ci siamo ritrovati per il libro “Dove son nato non lo so” di Giuseppe Laino, un libro (che non ho ancora letto, ma sicuramente bellissimo) come tanti, e non lo dico per “sminuire” il valore di un romanzo che racconta Via Gaggio e “ci” racconta. Ecco, presento le cose in questo modo per “provocazione” e per un pò, non me ne vogliatemi, continuerò su questa “via”. Viviamo nel mondo multimediale, definito a capitalismo avanzato, laddove pare che la “tecnica” sia divenuta protagonista delle nostre vite prendendo il posto di quelle che un tempo erano le ideologie, e la tecnica significa per molti potere, e uno dei segni del potere è il cosiddetto “vile denaro”. Siamo attraversati da storie, narrazioni, spesso ci piacciono, spesso per molti sono un copione, una storia già raccontata una volta per tutte, la storia di chi vuole semplicemente un’emozione, forte, non importa come, se attraverso un dramma o una scena comica. Molti sociologi attribuiscono alla società dell’immagine la perdita del senso storico; o che è lo stesso la capacità di narrare. Non voglio attribuire la colpa di tutto ciò al fanatismo di chi dice che con la televisione (o “diceva” visto che oggi la novità è data piuttosto da internet e dalla comunicazione virtuale) tutto è peggiorato. Se viviamo di immagini perdendo il discrime tra reale e ideale, perdiamo la capacità di raccontarci; la parola richiede ascolto (non per questo le Sacre Scritture sono raccontate), disponibilità ad immaginare ben sapendo che si tratta di un tentativo di figurarci una situazione non disponibile, esiste uno scarto tra la parola e la realtà evocata che, nè l’immagine mentale nè quella virtuale può colmare. Il bambino piccolo sa che piangendo ottiene la soddisfazione di un bisogno corporeo, lo rifà in seguito e così via fino a quando il soddisfacimento non sarà più immediato; arriva a questo punto la mentalizzazione, o la nascita di una forma primordiale di psichizzazione del vissuto. Si comincia a “ritenere” l’esperienza che è immagine, ma anche sospensione la quale fa nascere il desiderio e l'”erotizzazione” che ne consegue. Le immagini mentali, o peggio virtuali, vissute come sfogo di un desiderio poco “strutturato”, poco curato, che assomiglia più a un fagocitare gli eventi che a viverli. Un esempio lampante? La pornografia! Non solo, da non freudiano quale io sono, ritengo che certamente esistono le pulsioni sessuali, ritengo però che la simbologia del cosiddetto complesso edipico (Jung parlava di un’energia psichica associata alla sfera sessuale ma non necessariamente sessuale) possa portarci a voler vivere emozioni al limite (intendo della consueta anche se non chiara “normalità”), una sorta di sfida al padre, un voler ergersi al di sopra delle domande di senso, sfidarle e così sfidare la morte. Tutto questo non è strettamente sessuale anche se la metafora può essere la pornografia o il sesso estremo; naturalmente il punto di vista vuole essere di critica all’atteggiamento di chi vuole il “tutto è servito” simbolo dell’odierna società consumistica.

Ho lasciato una breve cesura, uno spazio tra una parte di questa breve riflessione e quella che segue, per il seguente motivo; il “non senso” ci abita e sfuggirgli equivale all’annullamento di ogni forma di narratività. E’ come leggere un romanzo sempre uguale dove cambiano solo alcune scene, riassemblate in un modo diverso in un romanzo solo apparentemente diverso. Qui la questione si fa complessa, cosa è la fruizione estetica? Qualche studioso liquida la questione dicendo che attraverso le narrazione noi completiamo la nostra esperienza, oppure se ne viviamo una “povera”. Altre visioni a mio avviso più solide ritengono che attraverso le narrazioni noi “produciamo senso” interagendo con il libro, questo manufatto (penso al libro di Laino) tra le mani, forse dentro un mondo, forse un gran bel libro (e me lo auguro di tutto cuore…) Interagiamo con l’autore diventando suoi complici per quanto riguarda il patto narrativo che fa nascere il narratore, ed insieme entriamo nel mondo di una finzione che tanto non è; quello che accade in molti romanzi può capitare a me, a te che stai leggendo e anche a tanti altri. I filosofi dicono, il mistero…e qualcuno non proprio stupidamente potrebbe dire, mistero? La vita o l’amore? Ma io so che voglio una ragazza, un bel lavoro, una casa, tanti bei soldi e via dicendo…E poi? Domande è meglio non farsene tante, è meglio vivere e divertirsi, direbbero molti; laddove quest’ultimo concetto corrisponderebbe ad uno sguardo più attento non con gli eccessi, bensì nel piacere del “non fare” (pensiero non orientato) e di lasciarsi andare ai propri bisogni “immaginali”…o in altri termini saper perdere tempo spinti dalla curiosità. Ed è a questo punto che ritorna il bisogno di ri-narrarsi a partire da questo bisogno, se questo diventa importante, probabilmante il “non-senso” minaccerà ancor più da vicino la nostra vita, ma il nostro impegno nel mondo per un progetto individuale ed insieme sociale (come il credere di far parte di un progetto più ampio di noi) diventerà ben più forte. Curiosità come pro-getto, esplorazione di un mondo spinti dal bisogno di conoscere, scrivere la storia del nostro incontro con questo mondo che è insieme, ambiente, persone e altre storie che raccontano di altri punti di vista che ci “relativizzano”.

Ecco, siamo al terzo punto della questione, oggi eravamo un gruppo cospicuo di persone (credo una cinquantina) all’interno di questa brughiera, in un luogo per me, come credo per molti insolita e non mai vista prima, eppure anche se la brughiera già la conoscevo dai libri questa mi si svelava davvero come “cosa” del tutto nuova ; e credo che anche la centesima sarebbe come la prima, come una storia ri-raccontata cento, mille volte. E la narrazione era lì, in quei colori, in quella parte della brughiera, in questa stagione, e così potrà essere tra dieci, o cent’anni (senza la terza pista di Malpensa s’intende, a forza di ostacolarli magari la terza pista non la faranno mai). Prescindendo dalle nostre certezze, o dai nostri saperi più o meno fondati, noi vedevamo colori e forme, e nominarli era solo un tentativo di catturare una realtà che però ci sfuggiva per la gran parte. Forse anche domani o dopo, ripasseggiando per quei sentieri proverò le stesse emozioni o altre ma mai un momento è uguale all’altro. Ci ri-attraversiamo attraverso continue narrazioni e anche quando lo facciamo in un modo che reputiamo coerente qualcosa nel frattempo starà cambiando. Le configuarazioni soggettive e oggettive e la loro reciproca interazione porta a risultati mai identici, per quanto in alcuni casi assai simili. Via Gaggio cambia come una storia, la nostra storia di gaggionauti, o la storia dell’ambiente o ciò che ci succede. Certo le leggi naturali sono infinite, noi chiamiamo le cose, razionalizziamo la realtà naturale (e non), eppure la natura ha prodotto un’evoluzione di cui l’uomo è solo un’emergenza (secondo una prospettiva antropocentrica); noi sappiamo raccontarci, a patto di avvicinarci alle cose che ci accadono con animo desideroso di “ritenere” qualcosa senza possederlo. La natura si rivela e si nasconde mentre lo fa (la prospettiva è qui quella dell’esistenzialismo heideggeriano); così noi possiamo dire; questo ci è capitato, lo abbiamo dentro eppure non è in noi meno di quanto non lo sia il mondo! Qui la magia dei colori della brughiera, noi gente con le nestre storie che leggeremo quella di Laino, ma forse anche una storia più grande, quella delle nostre vite, banali se viste con sguardo “povero” ma profonde perchè ci coinvolgono come persone tutte. Queste sono le nostre vite, questa è la storia di Via Gaggio, una storia come altre, forse banale, oppure storia che si approssima al mistero? E cosa è questo? E’ tutto così chiaro che a pensarci si può solo giungere alla conclusione che non se ne sa nulla….ecco allora che senso e non-senso si richiamano e che una parte di quest’ultimo rimarrà fuori in quanto realtà che ci sfida e provoca attraverso l’esistenza.

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  2. Posted by Paolo Pustorino on 11 aprile 2011 at 12:52 PM

    Mi spiace arrivare come una meteora di cinismo (nel senso originario) nell’aulicità di questo articolo, ma mi piacerebbe portare alla luce una considerazione più pratica e meno intellettuale riguardo a quanto vissuto ieri.

    Io c’ero, ieri. Ho scoperto di essere passato per la brughiera in una delle mie escursioni solitarie un paio d’anni fa. Così avevo scoperto via Gaggio, ma senza saperlo.

    Ieri la brughiera mi è stata raccontata (e bene, al di la delle precisioni o imprecisioni tecniche) e me la sono potuta gustare.
    Sappiamo perchè esiste “W via Gaggio” e devo dire che da ieri sono ancora più convinto del voler partecipare a quest’opera di diffusione del “virus” contro la costruzione della terza pista.
    Ciononostante la presentazione del libro di Giuseppe, ieri, mi è giunta un po’ fuori luogo.

    Cercherò di spiegarmi ma non è facile, l’argomento che abbraccio è vasto e non consente un approfondimento qui, in questa sede. Cercherò di andare per periodi brevi e incisivi, riassumendo ciò che ieri del libro e del nostro territorio si è detto e affermato. Lascio da parte le considerazioni personali, ma immetto nel flusso delle informazioni alcune nozioni abbastanza basilari della sociologia, dell’ingegneria sociale etc.

    Ieri, mentre si parlava di un romanzo che narra vicende legate al nostro territorio, ho sentito pronunciare parole come “indignarsi” e “combattere”. Ieri ho visto ergere un racconto a veicolo di amore e coinvolgimento per l’energia che serve al nostro obiettivo.
    Ieri si diceva (sintesi mia) “le forze impersonali che governano le nostre vite, spingono perchè noi spegnamo il nostro spirito critico e ci rassegnamo: la pista ‘tanto si farà’, vogliono farci pensare”.
    Tutto ok, sono personalmente d’accordo e il discorso non fa una grinza.

    Vediamo un po’ come funziona la propaganda che mira a uccidere, a seviziare il nostro spirito critico al punto da renderci persone arrese a qualsiasi scelta “dall’alto”.
    In primo luogo, come tutti i grandi demagoghi hanno dimostrato, l’uomo singolarmente intelligente è complessivamente stupido. L’uomo può vivere in modo più o meno democratico in orde, in branchi: gruppi piccoli che si autoregolamentano. Nel momento in cui il branco diventa gregge, l’ora diventa folla, allora la ragione è perduta.
    Non è cinismo, è fisiologia: ti senti spersonalizzato, schiacciato dalla moltitudine! Cosa conta il tuo parere? I risultati degli exit-poll in televisione sono un ottimo modo di “scoraggiare la gente” prima che vada a votare: quando gli unici dati certi PRIMA delle elezioni erano i voti dati in famiglia, la gente era più convinta, si sentiva forte delle convinzioni del suo piccolo branco.
    La soglia dopo il quale il gruppo diventa folla è quella dopo la quale il singolo diventa sostituibile, ovvero dove le competenze e l’opera di un individuo PRECISO non sono più necessarie al mantenimento del gruppo: dall’uomo alla sua funzione quindi.
    In questo caso l’autoregolamenteazione non è più possibile, l’uomo si sente automatizzato e diventa necessario istituire un governo centrale.

    Da qui in poi la democrazia è una favola. Al governo vengono dati poteri e i privilegi necessari ad esercitarli. Finchè le cose vanno bene (finchè ogni membro del gruppo, per quanto deumanizzato, ha risorse per se e non ha problemi nel suo ambiente e nel suo microgruppo), allora la parvenza di democrazia regge.

    Quando si entra in uno stato di crisi, allora il governo deve intervenire con forza, in virtù dei suoi dovrei e attraverso i privilegi ad esso concessi. Che le scelte del governo siano illuminate o abiette, il risultato è lo stesso: non è più il gruppo a regolarsi _democraticamente_ ma si entra in un totalitarismo più o meno volontario, in una dittatura universalmente accettata.

    Man mano che la struttura del gruppo diventa più complessa, la distanza tra le istituzioni governative e l’insieme di individui (la folla) cresce. Questo sfuma ancora di più le visioni reciproche e la folla è intesa dai governanti come un’unica entità.
    Come si governa una folla? Trattandola da folla: si fa statistica, si decide cercando di assoggettare OGNI SINGOLO ad un CITTADINO MEDIO, calcolato, ma inesistente. Proprio come leggere la brughiera su un libro, non è viverla e come viverne il ricordo non è come viverla due volte, così parlare al “cittadino” non è parlare a Paolo, Giuseppe, Marco.

    Quanto a “governare le folle” ciò che accomuna tutti noi, il comun denominatore, è certamente la parte più istintuale ed incontrollabile. Ogni pubblicitario sa che iterazioni, simbolismi ma soprattutto EMOZIONI FORTI sono i mezzi per mantenere una folla e convincerla (provate a pensare a Fascismo e Nazismo: usavano la paura del diverso, l’annichilimento del singolo, il CONFORMISMO, per mantenere ordine; un ordine impersonale e artificioso, un perenne stato di crisi che giustificasse la presenza di un governo centrale, forte e determinato).

    In questo scenario, l’unica via di salvezza è insegnare alla gente a usare la ragione.
    Il raziocinio rendo ognuno diverso dall’altro e rende difficile far marciare un gruppo di pari passo.

    Se domani “W via Gaggio” volesse coordinare un’azione di massa di tutti i cittadini del territorio che conosciamo, O tutti fanno quel che si dice loro di fare, OPPURE se si mettono tutti a discutere per capire, valutare, mettere in dubbio, allora addio e tutto va a carte quarantotto. Questo è intuitivamente evidente.

    Giuseppe ieri diceva “dobbiamo fare SCELTE ogni giorno, per liberarci dalla depressione del nostro essere sub-umani!”. Io sono d’accordo e lo sono anche molti sociologi. Il fatto di decidere è fondamentale.

    Ecco perchè i discorsi partigiani e la non incentivazione al colloquio di ieri mi hanno lasciato poco entusiasta.
    Ho visto una “W via Gaggio” fare “pubblicità”, “propaganda”. Prendere allo stomaco le persone (“Vedete questa bella quercia? Qui tutto asfalto da domani!!!”).

    Certo funziona.
    Ma non incentiva le scelte. Forse era il caso di dire che questa terza pista a malpensa NON SERVE A NIENTE e spiegare perchè con i numeri.

    Magari anche ammettere che se nel 2020 questa pista servisse al territorio, allora FORSE sarebbe pensabile valutare di farla.
    Io non la farei comunque ma non è forse giusto che la gente SCELGA?

    Ecco, forse non sono arrivato a nulla, ma volevo dare degli spunti di riflessione. Cerchiamo di diventare consapevoli.
    E cerchiamo di aiutare i ragazzi di “W via Gaggio” ad aiutarci a diventare consapevoli.

    Questo mio commento non è una lamentela, ma un feedback. Spero sia spunto di riflessione. E spero che, se qualcosa ho sbagliato nella mia valutazione, mi sia fatto notare.

    La biodiversità è da proteggere quanto la diversità delle idee! Questo ci rende uomini, liberi.

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  3. Posted by Balice Nicola on 11 aprile 2011 at 11:04 PM

    Bellissimo spunto di riflessione quello di Paolo Pustorino, colpisce per la chiarezza e la lucidità di un’analisi che ci riporta alla nostra condizione di “esseri umani” razionali, ma assai ben poco complessi e più “semplici” (nel senso di rozzi) di quel che si possa pensare. Del resto già Jung parlava di archetipi (immagini primordiali depositate nel nostro inconscio collettivo che ci governano); lo stesso Nietsche, nella complessità del suo pensiero si lasciò possedere ad un certo punto della sua vita (è il 1900 e siamo a Torino) dall’archetipo del dionisiaco e della volontà di potenza che sempre ritorna uguale a sè stessa nel tentativo di rendere “immortale” un gesto, il gesto tragico dei greci che sapevano del radicale non senso del mondo (ogni senso è artificiale, espressione della volontà di potenza). Heidegger parlava di “precomprensione ontologica” (che in realtà riguarda gli enti o le cose, piuttosto che l’essere); il mondo che abitiamo nell'”esserci” (ovvero essere presso il mondo) è già per molti aspetti pre-interpretato; Jnug parlava del resto della dittatura del Si (impersonale). Certamente a livello di piccole comunità sarebbe più facile un discorso di partecipazione democratica, a livello delle grandi organizzazioni comunitarie si esce dalla dimensione individuale per entrare in quella più propriamente sociale (con leggi non più deducibili dal personale). Si parla di democrazia, partecipazione popolare, salvo il fatto che, pare, la politica la facciano i Media, oppure gli slogan che a guisa di spot pubblicitari cercano di “captare” il consenso (siamo nella società dell’immagine del resto). Operazioni di marketing, e ancora una volta ci viene in aiuto la teoria degli archetipi (che Jung aveva in gran parte mutuato dall’antropologia); sono sempre lì, a ricordarci la nostra sudditanza a dei guardiani che “letteralmente” guidano la nostra vita (ad esempio, uno tra i tanti, il bisogno di un padre forte e onnipotente che fa le cose per noi; il riferimento è di natura puramente antropologica). Premesso questo, ritengo che, con Foucault, ogni epoca abbia le sue pratiche di “libertà” (o di “individuazione” direbbe ancora Jung); ovvero la possibilità di accedere all’autenticità di noi stessi attraverso gli strumenti che il mondo ci mette a disposizione. In poche parole siamo noi stessi nel mondo, lasciandoci “coinvolgere” da esso, ma senza perderci in compromessi inutili o che ci avviliscono. Ancora Jung diceva che, in un orientamento collettivo della vita la vera moralità va in crisi, ovvero necessitiamo non di una complessità che è a posteriori, prima viene il senso di una partecipazione emotiva, il riconoscimento di quegli “scarti fenomenici” che nel mondo ci rimandano ad una promessa tradita (nel senso di “tradizione” come ciò che ci svia, a guisa di “feticcio” dal vero senso della vita); questi scarti nel mondo di oggi sono quel rimosso che ai margini di un’esistenza affannosa ci ricordano forse il senso più profondo di chi “perde tempo”, di chi vede nell'”essenziale” una legge più solida (forse il barlume di una legge universale?). Io credo che narrarsi sia una delle modalità di accesso a questo senso, la democrazia è certo problematica, diventa assai spesso demagogia (non solo da noi in Italia!), questo non toglie però che si possa fare qualcosa per migliorarla con il cuore prima che con la ragione; o con entrambe. Cogito ergo sum, direbbe Cartesio, ma sono anche se sento direbbero i neocognitivisti. L’informazione corretta è fondamentale, occorre però toccare le corde emotive della gente; del resto in una società democratica, noi normali cittadini, assai spesso conosciamo alcuni aspetti della realtà ma ne ignoriamo altri (chi veramente potrebbe dire di possedere una conoscenza realmente complessa, un metasapere che attraversa discpline diverse con statuti epistemologici diversi? Sapere tecnico e insieme un sapere filosofico?) Rimane il cuore, la nostra storia, non è questo un atteggiamento naiv, la conoscenza non è difatti un possesso stabile (in realtà non è affatto un possesso), anzi è solo tentativo di darci una risposta che viene dal cuore. Le scienza ci completano, ci fanno vivere ma in quanto “ipotetiche” e finalizzate a fini pratici vanno completate da un bisogno etico più universale, che non si ferma al mero dato, ma lo rielabora, in quanto questo è un solo aspetto della realtà. Certo non tutta. Per questo ritengo giustamente (e in questo concordo pienamente con l’analisi di cui sopra), che un atteggiamento non troppo idealistico o ingenuo sia necessario, senza però dimenticare che noi abitiamo un mondo che richiede senso. Va bene la Realpolitik, la reale conoscenza del mondo che noi abitiamo; noi siamo però anche bisogno di un di più, di un surplus di realtà a cui il cuore può attingere… Le battaglie si vivono col cuore; oltre che naturalmente con la ragione….

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  4. Caro Paolo, c’è forse un equivoco di fondo. Ieri, domenica, noi del comitato abbiamo voluto fare niente di più e niente di meno rispetto a quello che avevamo annunciato: una visita guidata in brughiera e la presentazione di un libro. Un libro bellissimo.
    Non era ieri la giornata adatta per la “pubblicità”, per la “propaganda”, niente di niente. Non erano previste particolari strategie comunicative di sensibilizzazione al tema. Ci sono stati solo dei semplici accenni.
    Dal Gennaio 2010, ogni giorno siamo attivi: o sul web oppure “on the road”. Altri sono i momenti in cui siamo andati al fuoco del tema: penso ai nostri gazebo di raccolta firma, ai nostri convegni, ai nostri incontri pubblici.
    Ci sono altri momenti in cui ci si limita a “fare cultura”, creando occasioni di stare insieme. E la tua mail è la dimostrazione che anche stavolta abbiamo fatto centro. Caro Paolo, adesso ci incontriamo anche in carne e ossa? Abbiamo veramente bisogno di tante persone. Possiamo contare su di te?
    CIAO!

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  5. Posted by Paolo Pustorino on 12 aprile 2011 at 10:27 am

    Si, è probabile che io abbia equivocato. A questo punto spero di essere stato l’unico, altrimenti sarò il primo ad aiutarvi a rimediare, se possibile! 🙂

    Vederci ci vediamo di sicuro, direi che lanciare il sasso (intellettuale) forza a non poter più nascondere la mano (pratica), no? 😉

    Un abbraccio e a prestissimo.

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  6. Buona regola per chi, a vario titolo, vuol comunicare qualcosa è assumersi le responsabilità in caso di insorgenza di equivoci.

    Per fugare qualsiasi dubbio, sarebbe bastato – a inizio presentazione – ribadire la finalità di quell’ora insieme: presentare quel meraviglioso romanzo, che ha sancito l’inizio di collaborazione fra l’autore e il Comitato, cioè tutti noi. A presto, Paolo! CIAO!

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